Sommario
- I crolli della borsa nella Storia
- 1. La mania dei tulipani (1637)
- 2. La bolla del Mare del Sud (1720)
- 3. Il panico del 1907
- 4. Il crollo di Wall Street del 1929 (Grande Depressione)
- 5. La crisi petrolifera e il crollo del 1973-1974
- 6. Lunedì nero del 1987
- 7. Il crollo della bolla giapponese (1990)
- 8. Lo scoppio della bolla dot-com (2000-2002)
- 9. La crisi finanziaria globale del 2008 (crollo di Lehman Brothers)
- 10. Il crollo da pandemia di Covid-19 (2020)
- Lezioni apprese e resilienza dei mercati
Mentre i mercati mondiali stanno vivendo nuove tensioni a causa dell’imposizione di dazi commerciali da parte del presidente Trump, con borse in ribasso e timori di escalation economica, è utile guardare al passato per comprendere come si sono manifestati i peggiori crolli della borsa della storia.

I crolli della borsa nella Storia
Gli shock finanziari non sono nuovi: dai bulbi di tulipano del Seicento fino alle crisi sistemiche del XXI secolo, i mercati azionari hanno attraversato momenti di panico che hanno lasciato segni profondi nell’economia globale. Questo articolo ripercorre i dieci più grandi crolli di borsa della storia, in ordine cronologico, analizzando data, mercati coinvolti, entità del calo, cause principali, conseguenze a breve e lungo termine e impatto globale. Ogni crisi ci racconta una storia fatta di euforia, speculazione, paura e cambiamenti strutturali. Capire queste dinamiche ci aiuta a interpretare meglio anche ciò che sta accadendo oggi.
1. La mania dei tulipani (1637)
Data: febbraio 1637.
Mercato coinvolto: mercato dei bulbi di tulipano nei Paesi Bassi (non una borsa valori tradizionale, ma un mercato di beni da investimento).
Entità del calo: i prezzi dei tulipani subirono un tracollo di oltre il 90% dal picco, crollando drammaticamente nel febbraio 1637.

Durante il “Secolo d’oro” olandese, i tulipani divennero un bene di lusso e oggetto di speculazione sfrenata. Gli investitori iniziarono a comprare e vendere bulbi di varietà rare a prezzi crescenti, persino stipulando contratti futuri pur di assicurarsi i fiori più ambiti. Si creò così una vera e propria bolla speculativa: al culmine della mania, alcuni bulbi venivano valutati più di sei volte il reddito annuo medio di un lavoratore.
Questo squilibrio tra prezzo e valore reale era insostenibile. Nel febbraio 1637, all’improvviso, nessun acquirente si presentò a un’asta di tulipani, facendo scattare il panico. Nel giro di poche settimane il mercato collassò, con i bulbi che persero quasi tutto il loro valore.
Sorprendentemente, il crollo dei tulipani ebbe un impatto economico limitato. Pur mandando in rovina molti speculatori privati, non causò una depressione generale nei Paesi Bassi
L’economia olandese, all’epoca la più prospera del mondo, proseguì la sua marcia e registrò ancora il reddito pro capite più alto a livello globale
Tuttavia, la Tulip Mania rimane un monito storico dei pericoli delle bolle finanziarie. Ancora oggi l’espressione “tulip mania” viene usata metaforicamente per indicare qualsiasi bolla speculativa in cui i prezzi di un bene si distaccano enormemente dal suo valore intrinseco.
Trattandosi del primo grande crollo speculativo documentato, la mania dei tulipani non ebbe effetti diretti al di fuori dell’Olanda. Il suo lascito fu soprattutto culturale e finanziario: diffuse una maggiore consapevolezza sui rischi dell’euforia speculativa e sull’importanza di un collegamento solido tra prezzo e valore reale. Gli eventi del 1637 furono un segnale precoce di come la psicologia di massa possa influenzare i mercati, una lezione che sarebbe tornata più volte nella storia.
2. La bolla del Mare del Sud (1720)
Data: anno 1720 (picco ad agosto 1720, crollo in autunno).
Borsa/indice coinvolto: azioni della South Sea Company alla Borsa di Londra (Regno Unito), e parallelamente la Bolla dei Mari del Sud investì anche altri titoli e il mercato francese (bolla della Mississippi Company).
Entità del calo: il valore delle azioni South Sea Company salì da circa 128½ sterline a gennaio 1720 a oltre 1.000 in agosto, per poi precipitare a 124 sterline a dicembre dello stesso anno.Si stima quindi un tracollo di quasi -80/90% dal massimo al minimo annuale.

La South Sea Company, fondata nel 1711, aveva ottenuto il diritto esclusivo di commercio con le colonie spagnole in Sud America (in particolare il commercio di schiavi) e nel 1720 propose di rilevare l’intero debito pubblico britannico in cambio di proprie azioni.
Questa proposta, approvata dal Parlamento, scatenò una frenesia di acquisti speculativi: l’aspettativa di profitti straordinari da commerci esotici e il sostegno di personaggi di rilievo (persino il re Giorgio I divenne governatore della compagnia) alimentarono un boom irrealistico del titolo.
Molti investitori, abbagliati dalla prospettiva di facili guadagni, indebitarono se stessi per comprare azioni, mentre fiorivano società truffaldine che promettevano opportunità mirabolanti (bubble companies). La mancanza di fondamentali solidi – i risultati commerciali reali erano molto modesti – significava che il rally era sostenuto solo dalla speculazione. Quando alcuni dirigenti iniziarono a vendere in massa le proprie azioni nel tardo agosto 1720, la fiducia si incrinò e iniziò il sell-off. A settembre la bolla era esplosa: i prezzi collassarono, trascinando al ribasso anche altri titoli di stato e società finanziarie.
Il crac del Mare del Sud rovinò migliaia di investitori in tutta l’Inghilterra. Molti risparmiatori persero interamente i loro patrimoni, generando sdegno popolare. Il Parlamento avviò un’inchiesta che rivelò corruzione e tangenti coinvolgenti anche membri del governo.
Lo scandalo portò all’ascesa al potere di Robert Walpole – considerato il primo Primo Ministro britannico – con il compito di ripristinare la fiducia. Sul piano normativo, in risposta all’episodio fu emanato il “Bubble Act” (1720), che impose restrizioni alla costituzione di società per azioni senza autorizzazione parlamentare, nel tentativo di evitare nuove bolle speculative. La South Sea Company sopravvisse ancora, sebbene ridimensionata, ma la vicenda rappresentò un duro colpo per la credibilità dei mercati azionari dell’epoca.
La bolla del 1720 viene spesso definita la prima grande crisi finanziaria internazionale. Oltre al Regno Unito, i suoi effetti si sentirono in Francia, dove contemporaneamente esplose la bolla della Compagnia del Mississippi (guidata dall’economista John Law), causando il collasso del sistema finanziario francese. In tutta Europa l’euforia speculativa del 1720 si tramutò in panico, con ricadute economiche: contrazione del credito, fallimenti e perdita di fiducia nei mercati finanziari. Tali crisi evidenziarono la necessità di maggior regolamentazione e trasparenza nei mercati azionari e furono lezioni precoci sui pericoli dell’avidità sfrenata, lezioni che avrebbero influenzato economisti e legislatori nei secoli successivi.
3. Il panico del 1907
Data: ottobre 1907 (culmine della crisi nella settimana del 21–25 ottobre 1907).
Borsa/indice coinvolto:Borsa di New York (NYSE) – particolarmente colpite furono le azioni di società finanziarie e trust; l’indice Dow Jones Industrial perse circa il 50% del suo valore rispetto al massimo dell’anno precedente.
Entità del calo: il mercato azionario americano scese di circa la metà tra il 1906 e la fine del 1907. Ad esempio, il Dow Jones passò da un picco di 103 punti nel 1906 a circa 53 punti nel novembre 1907, segnando un crollo vicino al -50%.

La crisi fu innescata da tentativi falliti di speculazione che minarono la fiducia nel sistema bancario. Nel ottobre 1907, due finanzieri tentarono di monopolizzare il mercato delle azioni della United Copper Company; quando il piano fallì, il prezzo di quel titolo crollò, innescando perdite a catena per le banche e trust che avevano finanziato l’operazione.
Questo evento aggravò una più ampia stretta creditizia in corso. All’epoca non esisteva una banca centrale che fungesse da prestatore di ultima istanza: il sistema finanziario era frammentato in molte banche e “trust” non regolamentati. Il panico si diffuse quando diversi trust companies (istituzioni finanziarie para-bancarie) subirono corse agli sportelli (bank run), poiché i depositanti, spaventati, cercavano di ritirare i propri risparmi. L’offerta di moneta si contrasse improvvisamente, causando un’ondata di fallimenti di banche minori e imprese in tutto il paese.
I problemi furono esacerbati dalla recente forte crescita speculativa di borsa nei primi anni del ‘900 e dall’eccessivo utilizzo di leverage (investimenti a debito). Di fronte alla crisi, l’intervento privato del banchiere J. Pierpont Morgan fu decisivo: Morgan radunò nella sua biblioteca i principali banchieri di New York e, di concerto con il Tesoro USA, orchestrò iniezioni di liquidità e salvataggi per arginare il collasso delle istituzioni finanziarie più importanti.
Grazie all’azione di Morgan e colleghi, entro la fine del 1907 la crisi fu tamponata e la fiducia iniziò lentamente a risalire. Tuttavia, gli Stati Uniti entrarono in recessione nel 1908, con un forte aumento della disoccupazione e un calo della produzione industriale. Molti piccoli istituti bancari e aziende fallirono durante il panico. La drammaticità degli eventi mise in luce l’urgente necessità di un prestatore di ultima istanza centrale. Infatti, la lezione del 1907 portò direttamente alla creazione del Sistema della Federal Reserve: nel 1913 il Congresso USA istituì la Fed per regolare la moneta e prevenire future crisi bancarie. Inoltre vennero introdotti nuovi meccanismi di cooperazione tra banche per fronteggiare situazioni di emergenza.
Il panico del 1907 ebbe ripercussioni anche fuori dagli Stati Uniti, causando contraccolpi sulle Borse europee, seppure meno gravi. La crisi mise in evidenza come, in un mondo finanziario sempre più interconnesso, gli shock in un grande centro finanziario potevano propagarsi altrove. Gli investitori internazionali divennero più cauti verso i mercati americani nel breve periodo. Più in generale, il 1907 viene ricordato per aver stimolato progressi istituzionali (banca centrale) che avrebbero poi giovato alla stabilità finanziaria globale. Fu un campanello d’allarme sulla fragilità del sistema finanziario dell’epoca e sulle riforme necessarie per renderlo più robusto di fronte al panico.
4. Il crollo di Wall Street del 1929 (Grande Depressione)
Data: 24-29 ottobre 1929, con effetti prolungati nei mesi e anni successivi. I giorni chiave furono il 24 ottobre 1929 (passato alla storia come Giovedì nero), il 28 ottobre e il 29 ottobre 1929 (Lunedì nero e Martedì nero).
Borsa/indici coinvolti: la Borsa di New York (NYSE), in particolare l’indice Dow Jones Industrial Average e altri indici azionari statunitensi.
Entità del calo: nella singola settimana dal 24 al 29 ottobre il Dow Jones perse circa il 30% del suo valore. Il 28 ottobre calò del -13% e il 29 ottobre di un ulteriore -12%, in quello che rimane l’uno-due più devastante nella storia di Wall Street. Complessivamente, dal picco di settembre 1929 al minimo del 1932, il Dow Jones crollò di quasi -89%, passando da 381 punti a circa 41 punti.

Il crollo del 1929 fu il risultato dell’esplosione di una gigantesca bolla speculativa formatasi negli anni ’20. Durante i “ruggenti anni Venti”, gli Stati Uniti conobbero una forte espansione economica e milioni di americani investirono in Borsa, spesso a margine (prendendo soldi a prestito), attirati da guadagni facili. Dal 1920 al 1929 il volume degli investimenti azionari era triplicato e gli indici di Borsa erano saliti esponenzialmente.
Questa crescita era però scollegata dai fondamentali: la produzione industriale e i salari non crescevano allo stesso ritmo, e ampi settori (come l’agricoltura) erano in difficoltà. L’euforia speculativa portò i prezzi delle azioni a livelli insostenibili, gonfiando una bolla alimentata da credito facile e scarsa regolamentazione (all’epoca non esistevano limiti significativi alla leva né entità di vigilanza come la SEC). Già nei giorni precedenti al crollo si erano avuti segnali di tensione con alcune sedute negative. Il 24 ottobre 1929 scoppiò il panico: fu il Giovedì nero, in cui furono vendute ben 13 milioni di azioni a Wall Street, provocando un primo drammatico ribasso.
Nei giorni successivi i tentativi di intervento di banche e finanziari per sostenere i prezzi si rivelarono inutili. Lunedì 28 e martedì 29 ottobre la vendita precipitò fuori controllo: oltre 16 milioni di azioni cambiarono mano il 29 ottobre a prezzi in caduta libera.
Folle di investitori si radunarono fuori dalla Borsa di New York assistendo impotenti al collasso. A quel punto la fiducia era infranta: migliaia di speculatori marginati furono spazzati via dai debiti e costretti a liquidare, alimentando un circolo vizioso di vendite.
Il crollo di Wall Street del 1929 segnò l’inizio della Grande Depressione, la peggior crisi economica del XX secolo. Nel breve periodo, il tracollo azionario generò una crisi di liquidità: molte banche, che avevano investito o concesso prestiti garantiti da azioni, si trovarono insolventi. Negli anni dal 1929 al 1933 circa 9.000 banche statunitensi fallirono, i risparmiatori persero i propri depositi e il credito si prosciugò. L’economia reale crollò: la produzione industriale americana si dimezzò e la disoccupazione negli USA salì oltre il 25%. In poche parole, uno shock finanziario si trasformò in una devastante crisi economica globale. Nel 1930 si ebbe anche una prima ondata di protezionismo (tariffe Smoot-Hawley) che aggravò la situazione.
La Grande Depressione durò per tutti gli anni ’30 in molte parti del mondo. In risposta, furono avviate riforme strutturali epocali: negli Stati Uniti il presidente Franklin D. Roosevelt lanciò il New Deal, un vasto programma di intervento statale nell’economia. Si creò la Securities and Exchange Commission (SEC) per regolamentare i mercati finanziari (1934), e furono imposte nuove regole sulle banche (Glass-Steagall Act del 1933 separò banche commerciali e d’affari). A livello internazionale, si organizzò la Conferenza di Bretton Woods (1944, al termine della Seconda guerra mondiale) per ridisegnare il sistema economico mondiale e prevenire futuri collassi, con la creazione di FMI e Banca Mondiale.
La memoria del 1929 influenzò profondamente generazioni di investitori e policymaker, accrescendo la prudenza verso l’uso della leva finanziaria e la consapevolezza dei pericoli della speculazione incontrollata.
L’impatto sul sistema economico globale fu immenso. Il crollo del ’29 fu il detonatore di una crisi globale: produzione, occupazione e commercio internazionale collassarono in tutti i principali paesi industrializzati. La Grande Depressione ebbe ricadute sociali e politiche drammatiche, contribuendo tra l’altro all’ascesa di regimi autoritari in Europa (favorendo la Germania nazista) e ponendo le premesse, indirettamente, per il secondo conflitto mondiale. L’evento rimane un caso di studio fondamentale in economia. Ha mostrato come un crash finanziario possa devastare l’economia reale e quanto sia cruciale il ruolo di banche centrali e governi nel gestire la stabilità economica. Dopo il 1929, il mondo finanziario non fu più lo stesso: regole più stringenti e istituzioni di salvaguardia furono messe in atto per cercare di evitare il ripetersi di un tale disastro.
5. La crisi petrolifera e il crollo del 1973-1974
Data: ottobre 1973 – dicembre 1974 (periodo di massima discesa dei mercati; il bear market durò circa due anni).
Borse/indici coinvolti: tutte le principali borse occidentali. Particolarmente colpiti furono gli Stati Uniti (indice S&P 500 e Dow Jones) ed Europa.
Entità del calo: tra gennaio 1973 e dicembre 1974 l’S&P 500 americano precipitò di -48%, rendendo questo ribasso uno dei più pesanti del dopoguerra. Il Dow Jones perse il -45% nello stesso periodo. Molti altri listini europei registrarono cali analoghi.

La crisi fu innescata dallo shock petrolifero dell’ottobre 1973. In seguito alla guerra del Kippur, i paesi arabi dell’OPEC imposero un embargo petrolifero verso gli Stati Uniti e altre nazioni occidentali che avevano appoggiato Israele nel conflitto. Nel giro di pochi mesi il prezzo del petrolio quadruplicò, passando da circa 3 a 12 dollari al barile.
Questo provocò un’impennata dell’inflazione in paesi già fragili economicamente. Contemporaneamente, negli USA esplodevano anche altri problemi: la fine del sistema di Bretton Woods (1971) e la svalutazione del dollaro; lo scandalo Watergate che portò alle dimissioni del presidente Nixon nel 1974, alimentando instabilità politica.
L’economia fu travolta da un fenomeno nuovo e sconcertante: la stagflazione, ovvero la combinazione di stagnazione economica e alta inflazione.
Tradizionali ricette di politica economica si rivelarono inefficaci di fronte a crescita zero e prezzi in ascesa contemporaneamente. Le banche centrali dovettero alzare i tassi d’interesse per frenare l’inflazione dilagante (negli USA superò il 12%), ma ciò soffocò ulteriormente l’attività economica. In questo contesto, i profitti aziendali crollarono e la fiducia degli investitori svanì, dando avvio a un prolungato mercato ribassista. Tra il 1973 e il 1974 gli investitori assistettero a una lenta ma continua discesa dei listini, senza un singolo giorno “shock” come nel 1929 o 1987, ma con un’erosione costante di valore.
Le economie occidentali entrarono in recessione tra il 1974 e il 1975. I “Trenta gloriosi” anni di crescita successivi alla Seconda guerra mondiale finirono bruscamente.
In molti paesi industrializzati la disoccupazione salì ai massimi dal dopoguerra, mentre l’inflazione mordeva il potere d’acquisto delle famiglie. Il crollo di Borsa impoverì investitori e fondi pensione, riducendo la ricchezza finanziaria disponibile. I governi adottarono misure di emergenza: in campo energetico, piani di razionamento e diversificazione (sviluppo di fonti alternative al petrolio); in campo economico, politiche monetarie restrittive per domare l’inflazione accompagnate però da stimoli fiscali per attutire la recessione.
La crisi del ’73-’74 mise in luce la vulnerabilità delle economie occidentali alla dipendenza dal petrolio.
Da allora, la diversificazione energetica divenne una priorità strategica. Sul fronte finanziario, l’esperienza di stagflazione portò a rivedere le teorie economiche prevalenti (mise in crisi la visione keynesiana tradizionale e favorì l’emergere di approcci monetaristi per il controllo dell’inflazione). I mercati azionari impiegarono diversi anni per recuperare: a Wall Street l’indice Dow Jones tornò ai livelli pre-crisi solo nel 1980, segnando uno dei più lunghi recuperi della storia moderna. La lezione assimilata fu che shock esterni come i prezzi delle materie prime possono avere effetti devastanti sui mercati, e che è necessario prevedere meccanismi di risposta rapidi per evitare spirali perverse come la stagflazione.
Il primo shock petrolifero fu un evento globale: trasferì enormi quantità di ricchezza dai paesi importatori di energia a quelli esportatori. Le nazioni industrializzate formarono l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) per coordinare le politiche energetiche e le risposte a future crisi. In molti paesi in via di sviluppo, l’aumento dei costi energetici aggravò il debito e rallentò la crescita. In generale, il crollo dei mercati del 1973-74 evidenziò l’interdipendenza tra geopolitica, economia reale e finanza: un conflitto in Medio Oriente innescò una catena di eventi che piegò borse e economie su scala planetaria, dimostrando che la stabilità dei mercati finanziari non può essere disgiunta dalla stabilità politica ed economica globale.
6. Lunedì nero del 1987
Data: 19 ottobre 1987, passato alla storia come il Black Monday.
Borse/indici coinvolti: borse mondiali in caduta simultanea. Il crollo partì dai mercati asiatici (Tokyo e Hong Kong) e si propagò all’Europa (Londra, Francoforte) per culminare a New York. L’indice più emblematico fu il Dow Jones Industrial Average, che quel giorno perse -22,6% del proprio valore il peggior ribasso giornaliero di sempre in percentuale per Wall Street. Analoghe percentuali di calo si registrarono su S&P 500 e altre piazze: ad esempio l’indice australiano perse -41,8% in ottobre e il FTSE 100 di Londra -26% in due sedute.
Entità del calo: Il Lunedì nero segnò un crollo istantaneo e verticale. In una singola seduta, il 19 ottobre, vennero bruciati oltre 500 miliardi di dollari di capitalizzazione sul mercato USA. Per dare un’idea, in termini percentuali fu un calo persino maggiore di quello cumulato nei giorni del 1929. Dal picco dell’agosto 1987 al minimo dopo il Black Monday, la Borsa USA perse circa il 34% in pochi mesi, ma gran parte della discesa avvenne concentrata in quel fatidico lunedì.

Il crash del 1987 fu dovuto a una combinazione di fattori tecnici e fondamentali. Alla base c’era un periodo di forte crescita borsistica: dall’inizio degli anni ’80 fino all’autunno ’87, Wall Street aveva messo a segno un poderoso rally e molti titoli risultavano sopravvalutati. Alla vigilia del crollo, gli investitori iniziavano a preoccuparsi per tassi d’interesse in rialzo e un deficit commerciale USA elevato, che indebolivano il dollaro.
Ma l’elemento scatenante fu legato ai nuovi strumenti finanziari e tecnologici introdotti in quel periodo: il diffondersi del trading automatizzato (program trading) e di strategie di portfolio insurance. In pratica, molti investitori istituzionali utilizzavano programmi computerizzati che vendevano futures sull’indice appena il mercato scendeva di un certo margine, così da limitare le perdite. Tuttavia, il 19 ottobre queste strategie si rivelarono disastrose: quando in Asia iniziò una forte ondata di vendite, i computer in Europa e poi negli USA entrarono in azione vendendo automaticamente grandi quantità di contratti, amplificando il ribasso anziché contenerlo.
L’ondata di panico si autoalimentò a velocità mai viste prima, complice l’interconnessione crescente tra le piazze globali. Inoltre, pochi giorni prima, il 14 ottobre, gli Stati Uniti avevano annunciato un deficit commerciale peggiore del previsto, e il 16 ottobre c’era stato un forte calo a Wall Street (-4,6% Dow) che aveva già allertato il mercato.
Questi fattori, sommati all’ansia per un possibile inasprimento fiscale in Germania e altri rumori macroeconomici, crearono le condizioni per un collasso istantaneo appena aperti i mercati il lunedì.
Lo shock fu enorme ma, a differenza del 1929, relativamente breve. Il giorno successivo al Lunedì nero, i mercati mostrarono forti segnali di volatilità ma recuperarono parte delle perdite. La Federal Reserve americana, guidata da Alan Greenspan, intervenne immediatamente dichiarandosi pronta a fornire liquidità illimitata al sistema finanziario per garantirne il funzionamento.
Questo intervento deciso – peraltro uno dei primi esempi di “Fed put” moderno – contribuì a stabilizzare la situazione. Entro il 1989 il Dow Jones aveva recuperato i livelli pre-crash. Nel frattempo, però, alcuni investitori e fondi saltarono: tra i più noti, il fondo speculativo di Leveraged buyout di UAL (United Airlines) fallì proprio in quei giorni.
Nel complesso, l’economia reale negli USA subì un impatto limitato: non ci fu recessione nel 1988 e la crescita continuò. Questo grazie anche alle pronte azioni correttive delle autorità.
Il Black Monday fece da catalizzatore per importanti riforme dei mercati: vennero introdotte le “circuit breakers”, meccanismi di sospensione automatica delle contrattazioni in caso di ribassi eccessivi in una singola sessione.
Si migliorò il coordinamento tra mercato azionario e mercato dei futures e opzioni, per evitare disallineamenti come quelli visti nel 1987.
Inoltre, ci si rese conto che i sistemi di trading computerizzato potevano amplificare i rischi sistemici: da allora furono implementate regolamentazioni per controllare il volume degli ordini automatici e algoritmici in condizioni di stress. In sintesi, il 1987 insegnò che innovazioni finanziarie apparentemente sofisticate (come la portfolio insurance) potevano fallire, evidenziando l’importanza di controlli di rischio più solidi.
Il Lunedì nero fu il primo crash genuinamente globale. Ogni grande borsa del mondo fu colpita quasi simultaneamente, rivelando il nuovo livello di interconnessione dei mercati finanziari.
Ciò mise in allarme i regolatori a livello internazionale: banche centrali e governi compresero la necessità di comunicazione e cooperazione in tempo reale durante le crisi finanziarie. Fortunatamente, grazie alla risposta coordinata, le conseguenze macroeconomiche furono contenute e non si scatenò una depressione. Il 1987, però, rimane un monito di come la psicologia di massa unita alla tecnologia possa generare movimenti di mercato estremi. Da allora, ogni volta che i mercati scendono rapidamente, l’analogia con il Black Monday è immediata e ha portato a predisporre strumenti di sicurezza che tutt’oggi vengono utilizzati (i circuit breaker, ad esempio, furono impiegati durante il crollo del 2020).
7. Il crollo della bolla giapponese (1990)
Data: periodo 1990-1992 (il ribasso iniziò all’inizio del 1990). Data simbolo: 1º gennaio 1990 – il primo giorno di contrattazioni dell’anno vide già un forte calo a Tokyo, segnando l’inizio del declino.
Borsa/indice coinvolto: Borsa di Tokyo, in particolare l’indice Nikkei 225.
Entità del calo: dopo aver toccato un massimo storico di 38.915 punti il 29 dicembre 1989, il Nikkei iniziò una discesa inarrestabile. Nell’arco del 1990 perse quasi -50%, scendendo sotto quota 20.000 ad agosto. La bolla continuò a sgonfiarsi per anni: entro il 1992 il mercato giapponese aveva perso oltre il -60% e non avrebbe mai più rivisto quei livelli per decenni. (Si parla di oltre -80% al punto di minimo raggiunto negli anni 2000 rispetto al picco del ’89).

Negli anni ’80 il Giappone aveva vissuto un periodo di crescita economica straordinaria. Politiche monetarie espansive, una forte disponibilità di credito e deregolamentazioni finanziarie avevano alimentato una bolla nei prezzi degli asset – sia immobiliari che azionari.
Le azioni giapponesi negli anni ’80 raggiunsero valutazioni stellari: la Borsa di Tokyo arrivò a capitalizzare oltre il 150% del PIL nazionale (per confronto, Wall Street era sotto il 50% del PIL negli anni ’80).
Il rapporto prezzo/utili (CAPE) del mercato giapponese salì a quasi 100x, un livello mai visto altrove.
Analogamente, il valore dei terreni a Tokyo e altre metropoli divenne folle (si diceva che il solo terreno del Palazzo Imperiale di Tokyo valesse quanto l’intera California). Questa euforia speculativa fu incoraggiata da banche giapponesi molto generose nel concedere prestiti, con tassi bassissimi e abbondante liquidità. Si diffusero investimenti in Borsa a leva da parte di aziende e privati, convinti che la crescita sarebbe continuata indefinitamente. Tuttavia, già nel 1989 la Bank of Japan iniziò a preoccuparsi per l’inflazione degli asset e adottò strette monetarie, alzando i tassi d’interesse. Tra maggio 1989 e fine 1990 i tassi passarono dal 2,5% al 6% circa, rendendo più oneroso il debito e meno attraenti le speculazioni. Con il costo del denaro in rialzo e i prezzi già insostenibili, la fiducia iniziò a vacillare. Nel corso del 1990, di fronte ai primi cali, molti investitori fortemente indebitati furono costretti a vendere (margin call), accentuando la caduta. Entro l’agosto 1990 il Nikkei si era dimezzato rispetto al picco di dicembre ’89.
La bolla era esplosa.
Il crollo azionario trascinò con sé anche il mercato immobiliare giapponese, che iniziò a calare dal 1991. Le banche giapponesi si trovarono piene di non performing loans (prestiti inesigibili) dovuti a investimenti su asset ormai svalutati.
Molti istituti caddero in crisi; il governo e la banca centrale intervennero tardivamente ma cercarono di stabilizzare il sistema finanziario. L’economia giapponese entrò in una fase di stagnazione: negli anni ’90 la crescita fu anemica e la deflazione divenne un problema cronico. Si parla dei “decenni perduti” del Giappone, iniziati proprio con il crash del 1990. A breve termine, migliaia di investitori nipponici persero ingenti ricchezze. Le aziende che avevano diversificato investendo i loro cash surplus in borsa subirono pesanti perdite, riducendo investimenti e occupazione.
Il Giappone non si riprese mai del tutto da quella bolla. Il Nikkei 225 rimase ben al di sotto del suo massimo per oltre 30 anni (solo nel 2021-2023 ha rivisto livelli vicini a quelli della fine anni ’80, dopo misure ultra-espansive). L’economia giapponese visse un lungo periodo di deflazione e debolezza dei consumi. Il governo dovette intervenire con enormi stimoli fiscali e la BoJ portò i tassi a zero negli anni ’90, inaugurando di fatto le politiche monetarie non convenzionali (QE, tassi negativi) in tempi moderni. La regolamentazione finanziaria fu rafforzata per evitare un nuovo eccesso di credito. Una lezione cruciale fu sui pericoli di lasciare surriscaldare troppo a lungo una bolla: le autorità giapponesi furono criticate per non aver agito prima e con più decisione per frenare la speculazione. Il caso giapponese divenne un avvertimento per altre banche centrali sul rischio di bolle patrimoniali e le difficoltà di gestirne lo scoppio.
Pur essendo concentrata in Giappone, all’epoca seconda economia del mondo, la crisi ebbe qualche ripercussione internazionale. Negli anni ’80 molti investitori esteri avevano partecipato al boom giapponese, quindi il crash colpì fondi e banche anche fuori dal Giappone. Tuttavia, globalmente, il 1990 fu anche l’anno della Guerra del Golfo e di altre turbolenze, per cui è difficile isolare l’impatto giapponese. Sicuramente la perdita di potere d’acquisto dei giapponesi influì sul calo della domanda mondiale (es. calo turismo e importazioni da parte del Giappone). Più a lungo termine, la stagnazione giapponese fu studiata attentamente dagli economisti di tutto il mondo per evitare che scenari simili si ripetessero altrove. La frase “non diventare come il Giappone” divenne comune nei dibattiti di politica economica quando altri paesi affrontavano scoppi di bolle (ad esempio la crisi 2008 negli USA): si cercò di evitare che un mercato in crash trascinasse l’economia in una deflazione protratta. Il crollo del 1990 ha dunque avuto un impatto globale soprattutto come caso di studio e monito sulla gestione delle bolle finanziarie di asset.
8. Lo scoppio della bolla dot-com (2000-2002)
Data: marzo 2000 (inizio del declino). Il picco fu toccato il 10 marzo 2000 con il Nasdaq Composite a 5048 punti; il crollo poi si dispiegò nell’arco di circa due anni, fino al 9 ottobre 2002, data del minimo del mercato orso.
Borsa/indici coinvolti: principalmente la Borsa degli Stati Uniti, in particolare gli indici tecnologici come il Nasdaq Composite e il Nasdaq 100. Anche l’indice S&P 500 subì forti perdite, trascinato dai titoli tech. Le borse europee vissero dinamiche simili (ad esempio il Nuovo Mercato in Italia o l’indice DAX in Germania ebbero bolle speculative sui titoli tecnologici).
Entità del calo: il Nasdaq Composite crollò di circa -78% dal picco del marzo 2000 al fondo dell’ottobre 2002. Passò infatti da oltre 5.000 punti a circa 1.100 punti. L’S&P 500 nello stesso periodo perse circa -49% dal massimo al minimo. Si trattò di una distruzione di ricchezza enorme, poiché molte società tecnologiche persero la gran parte del loro valore e alcune fallirono del tutto.

La cosiddetta bolla “dot-com” fu alimentata dall’euforia per le potenzialità di internet e delle nuove tecnologie alla fine degli anni ’90. Gli investitori, entusiasmati dalle prospettive della “new economy”, cominciarono a riversare capitali in qualsiasi azienda legata al web o al mondo digitale, spesso senza guardare ai fondamentali. Start-up appena nate, molte delle quali non avevano utili né ricavi significativi, riuscivano a quotarsi sul Nasdaq raccogliendo milioni, con valutazioni stratosferiche basate solo su aspettative di crescita future.
I prezzi delle azioni tech salirono in modo parabolico tra il 1995 e il 2000: il Nasdaq Composite quintuplicò in meno di 5 anni. Un esempio eclatante fu la mania per titoli come Pets.com, Webvan, eToys e tante altre dot-com.
Gli investitori retail temevano di “perdere il treno” e compravano a qualsiasi prezzo, mentre i media alimentavano la narrativa che internet avrebbe cambiato tutto e giustificato qualunque valutazione. Nel 1999 la Fed iniziò a rialzare i tassi d’interesse per frenare possibili surriscaldamenti, e alcune aziende cominciarono a mancare le esagerate aspettative di utili.
Il clima cambiò nel marzo 2000: un avvertimento fu l’acquisizione fallita tra alcune big tech e i primi risultati deludenti di aziende dot-com appena quotate. Quando il Nasdaq raggiunse il picco il 10 marzo, iniziarono improvvisamente le vendite. Nei mesi seguenti il sentiment si invertì: ogni annuncio di utili inferiori o di cash burn elevato portava a crolli dei rispettivi titoli. Il crollo fu graduale ma inesorabile: non un singolo giorno drammatico, bensì un continuo declino da primavera 2000 a tutto il 2001 e metà 2002, punteggiato da rimbalzi effimeri. Eventi esterni, come gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, peggiorarono ulteriormente la fiducia degli investitori a metà del percorso.
Tra il 2000 e il 2002 decine di società “dot-com” dichiararono bancarotta, cancellando gli investimenti di azionisti e venture capital. La disoccupazione nel settore tecnologico aumentò quando molte start-up chiusero i battenti. Gli Stati Uniti entrarono in una breve recessione nel 2001 (legata sia allo scoppio della bolla che allo shock dell’11 settembre). Il settore delle telecomunicazioni fu pesantemente colpito (basti pensare al crack di WorldCom nel 2002). Gli investitori individuali che erano entrati sul mercato tardi nella bolla subirono gravi perdite, raffreddando la propensione al rischio per diversi anni. In risposta, la Federal Reserve invertì rotta tagliando aggressivamente i tassi d’interesse (11 riduzioni tra il 2001 e il 2003) per stimolare l’economia.
Questo fu efficace nel contenere la recessione, che fu relativamente breve.
Il crollo delle dot-com fu un bagno di realtà. Il Nasdaq impiegò ben 15 anni per tornare ai livelli del 2000 (ha recuperato il picco solo nel 2015).
Ciò ha insegnato agli investitori che anche settori promettenti possono vedere le loro valutazioni implodere se crescono troppo velocemente senza fondamentali. Negli anni seguenti, tuttavia, molte aziende tecnologiche sopravvissute (Amazon, eBay, Cisco, ecc.) emersero più forti e con modelli di business concreti. Fu anche introdotta maggiore disciplina: ad esempio, gli investitori divennero più esigenti nel chiedere profitti e piani sostenibili alle società tech. A livello regolamentare, dopo scandali contabili come Enron e WorldCom (legati al clima di quegli anni), si varò negli USA la legge Sarbanes-Oxley (2002) per rafforzare i controlli societari e la trasparenza finanziaria. La Fed mantenne una politica monetaria espansiva per gran parte dei primi anni 2000 per consolidare la ripresa, anche se ciò può aver contribuito a creare la successiva bolla immobiliare (un effetto collaterale). In sintesi, la bolla dot-com lasciò un misto di cauto scetticismo verso le “novità rivoluzionarie” e allo stesso tempo pose le basi per il successivo sviluppo maturo del settore tech.
Lo scoppio della bolla tecnologica fu avvertito anche in Europa e Asia. Molte borse europee avevano replicato la mania: ad esempio il Nuovo Mercato in Italia crollò, e l’indice tedesco Neuer Markt perse oltre il 90% e fu poi chiuso. Ciò frenò l’entusiasmo per i mercati azionari in molti paesi per diversi anni. Tuttavia, data la relativa brevità della recessione globale seguita al 2000-2001, l’impatto fu meno severo di altre crisi come 1929 o 2008. Fu più che altro un reset finanziario: il capitale si spostò da settori sopravvalutati ad altri (ad esempio dopo il 2002 iniziò la bolla immobiliare e delle materie prime). Nel complesso, la lezione globale fu sull’importanza di evitare il “pensiero magico” secondo cui “questa volta è diverso”: anche nella rivoluzione di Internet, le leggi della gravità economica si applicano. Gli investitori globali divennero più prudenti verso hype tecnologici, almeno fino all’arrivo di nuove generazioni di innovazioni (come successo poi con social media, criptovalute, ecc., in cui si sono viste dinamiche a tratti simili).
9. La crisi finanziaria globale del 2008 (crollo di Lehman Brothers)
Data: 15 settembre 2008 – giorno del fallimento di Lehman Brothers – è considerata la data simbolo. In realtà la crisi si sviluppò per tutto il 2007-2008, con crolli di mercato particolarmente violenti nell’autunno 2008.
Borse/indici coinvolti: tutti i principali mercati finanziari mondiali. In USA l’indice S&P 500 e il Dow Jones crollarono, analogamente in Europa (FTSE MIB, DAX, CAC40) e in Asia.
Entità del calo: dal picco di ottobre 2007 al minimo di marzo 2009, l’S&P 500 perse circa il -57% e il Dow Jones il -54%. Per dare alcuni riferimenti: il 29 settembre 2008 il Dow Jones crollò di 777 punti in un solo giorno (allora il maggior calo di sempre in punti, pari a circa -7%). I mercati vissero giornate con cali dell’ordine del 5-10% di continuo. Alla fine, il Dow Jones toccò un minimo di 6.594 punti nel marzo 2009 rispetto ai 14.000 del 2007. Trillioni di dollari di ricchezza svanirono nel giro di pochi mesi.

La crisi del 2008 affondava le radici nella bolla immobiliare statunitense dei primi anni 2000 e nella diffusione dei mutui subprime. Per anni, banche e altre istituzioni avevano concesso mutui a clienti ad alto rischio (subprime) e impacchettato questi mutui in strumenti finanziari complessi (CDO, MBS) venduti in tutto il mondo. Quando, a partire dal 2006, i tassi d’interesse salirono (dopo un lungo periodo di denaro a basso costo) e i prezzi delle case negli USA iniziarono a scendere, molti mutuatari subprime andarono in default. Nel 2007 emersero i primi segnali di crisi: diverse società specializzate in mutui fallirono e due hedge fund di Bear Stearns (colmi di titoli legati ai mutui) collassarono. Nel settembre 2008 la situazione precipita: la storica banca d’affari Lehman Brothers dichiarò bancarotta il 15 settembre, dopo che il governo USA decise di non salvarla. Questo evento shock fece evaporare la fiducia residua: se una banca del calibro di Lehman poteva fallire, nessuno era più al sicuro. I mercati creditizi si congelarono, le banche globali smisero di prestarsi denaro per timore di controparte. Una serie di istituzioni finanziarie caddero in crisi (Merrill Lynch venne assorbita da Bank of America, AIG – colosso assicurativo – fu salvata con fondi pubblici, Washington Mutual e altri fallirono). La Borsa reagì con panico generale: vendite indiscriminate di azioni, in particolare del settore finanziario, ma anche industriale (visto il credit crunch imminente). Il culmine del panico fu a fine settembre-inizio ottobre 2008, quando il Congresso USA inizialmente bocciò un piano di salvataggio (TARP), innescando il crollo di 777 punti del Dow il 29 settembre.
Solo dopo l’approvazione, qualche giorno dopo, di un massiccio pacchetto di aiuti, i mercati hanno avuto fasi di respiro, ma il danno era fatto.
La crisi finanziaria del 2008 portò alla Grande Recessione globale del 2008-2009. Nell’ultimo trimestre 2008 e primo del 2009, l’economia mondiale subì una contrazione netta: PIL in caduta (USA -4.3% nel 2009, Europa simile), commercio internazionale in stallo, disoccupazione in forte aumento (negli USA superò il 10%). In molti ricorderanno immagini di filiali di banche in crisi prese d’assalto (come Northern Rock nel Regno Unito nel 2007) e il clima di angoscia sui mercati. Per stabilizzare il sistema, i governi e le banche centrali adottarono misure straordinarie e coordinate: la Federal Reserve e altre banche centrali tagliarono i tassi ai minimi storici (vicino allo 0%) e iniziarono il Quantitative Easing, immettendo enormi liquidità. Furono varati salvataggi bancari con denaro pubblico in vari paesi (il TARP da $700 miliardi negli USA, ricapitalizzazioni bancarie in UK, Irlanda, salvataggi di banche in Germania, ecc.). Inoltre, piani di stimolo fiscali vennero lanciati (ad esempio in USA un pacchetto da $800 miliardi nel 2009). Queste azioni evitarono il collasso totale del sistema finanziario. Tuttavia, la crisi toccò duramente le famiglie: milioni persero la casa per pignoramenti, le piccole imprese faticarono a finanziarsi, e la ricchezza netta delle famiglie crollò.
Il dopo-crisi fu segnato da una lunga, lenta ripresa. Molti paesi occidentali vissero un decennio di crescita sottotono e inflazione bassa. Sul piano della regolamentazione, la crisi 2008 portò a un giro di vite: negli Stati Uniti fu approvato il Dodd-Frank Act (2010), con restrizioni alle banche (ad esempio la Volcker Rule per limitare il trading proprietario) e richieste di capitali più elevati. In Europa si crearono meccanismi di vigilanza bancaria centralizzati (Unione Bancaria e stress test periodici) e nuove regole (Basilea III) per aumentare la solidità patrimoniale delle banche. L’evento ebbe anche impatti politici e sociali: l’aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze dopo il 2008 contribuì al malcontento che si sarebbe manifestato in movimenti populisti negli anni successivi. Dal punto di vista dei mercati, la lezione del 2008 fu un profondo promemoria sull’importanza di gestire il rischio sistemico, di evitare eccessi di leva e di vigilare su settori opachi (come la finanza strutturata) che possono contagiare l’intero sistema.
La crisi finanziaria del 2008 fu il peggior shock dai tempi della Grande Depressione, con effetti globali sincronizzati. Nessuna economia avanzata fu risparmiata, e anche i paesi emergenti videro frenare bruscamente la crescita. Il commercio mondiale subì il calo più rapido mai registrato. Il crack di Lehman spaventò a tal punto governi e investitori che, per evitare un nuovo “momento Lehman”, le banche centrali divennero molto più interventiste negli anni seguenti. In un certo senso, il 2008 ha plasmato l’era successiva: un periodo di tassi bassissimi e iniezioni di liquidità che hanno sostenuto i mercati finanziari per oltre un decennio dopo. Paradossalmente, il crollo ha portato poi a uno dei più lunghi mercati rialzisti (2009-2020), ma con l’ombrello costante delle politiche accomodanti. Infine, a livello culturale, il 2008 ha rafforzato la consapevolezza dell’interconnessione globale: una crisi partita dal settore immobiliare americano contagiò banche europee e asiatiche, dimostrando che nel mondo finanziario moderno i confini nazionali contano poco di fronte al contagio. Da allora, i regolatori globali (G20, Financial Stability Board) lavorano con maggiore coordinamento per monitorare e prevenire rischi sistemici.
10. Il crollo da pandemia di Covid-19 (2020)
Data: febbraio–marzo 2020, con il punto di minimo raggiunto il 23 marzo 2020.
Borse/indici coinvolti: praticamente tutte le borse mondiali in simultanea. Negli USA l’indice S&P 500 e il Dow Jones; in Europa l’Euro Stoxx 50, FTSE MIB, DAX; in Asia Nikkei, Borsa di Shanghai, ecc.
Entità del calo: è stato il crollo più rapido di sempre. In poco più di un mese, dal 19 febbraio al 23 marzo 2020, l’S&P 500 perse circa -34% del suo valore (da ~3386 a ~2237 punti). Il Dow Jones scese di oltre -37% nello stesso periodo. Molte piazze europee segnarono -30%/-40%. Si sono registrate alcune delle peggiori giornate di sempre: ad esempio il 16 marzo 2020 l’indice Dow Jones crollò del -12,9% (la sua peggior seduta dal 1987) e l’S&P 500 dell’-11,5%. Nel corso di marzo 2020 furono attivate più volte le sospensioni automatiche (circuit breakers) per eccesso di ribasso, evento mai successo così frequentemente.

La causa scatenante fu l’emergenza sanitaria Covid-19. A gennaio 2020 l’epidemia di coronavirus inizialmente confinata in Cina destava preoccupazione, ma i mercati globali non ne risentivano molto. Tuttavia, con la rapida diffusione del virus in Europa e negli Stati Uniti tra febbraio e marzo, divenne chiaro che si trattava di una pandemia globale. I governi iniziarono ad adottare misure drastiche di lockdown, chiusura delle attività produttive, restrizioni ai viaggi e quarantene di massa per contenere il contagio. Questo implicava, di fatto, un congelamento improvviso dell’economia: interi settori (viaggi, turismo, ristorazione, trasporti) si fermarono dall’oggi al domani. Gli investitori si trovarono di fronte alla prospettiva di una forte recessione globale, di utili aziendali in caduta libera e possibili crisi di liquidità per molte imprese. Il livello di incertezza era senza precedenti, perché nessuno sapeva quanto sarebbe durato il blocco né quanto grave sarebbe stato il bilancio umano ed economico della pandemia. Di conseguenza, a fine febbraio 2020 partì una vendita generalizzata su ogni asset rischioso: azioni in primis, ma anche materie prime (il prezzo del petrolio crollò) e obbligazioni societarie. La velocità del crash rifletteva anche i meccanismi moderni: algoritmi di trading e strategie di risk-parity che vendettero automaticamente, e investitori che cercarono rifugio nel contante. La paura fu il motore centrale: paura del virus e delle sue implicazioni economiche. L’OMS dichiarò ufficialmente la pandemia l’11 marzo 2020, nel pieno del panico di mercato.
L’impatto economico iniziale fu drammatico: nel secondo trimestre 2020 il PIL di molti paesi crollò a tassi annualizzati mai visti (USA -32.9%, Italia ~ -40%, ecc.). La disoccupazione impennò (negli Stati Uniti il tasso balzò dal 3% a oltre 14% in poche settimane, con 20 milioni di posti di lavoro persi in aprile). Nonostante ciò, i mercati finanziari si ripresero sorprendentemente in fretta. Già da fine marzo 2020 le borse iniziarono un vigoroso rimbalzo, spinte dalle misure eccezionali messe in campo. Infatti, le banche centrali reagirono immediatamente: la Federal Reserve tagliò i tassi a zero e avviò un Quantitative Easing illimitato, acquistando non solo titoli di Stato ma anche obbligazioni corporate. Allo stesso tempo, i governi lanciarono massicci piani di stimolo fiscale: negli USA un pacchetto da $2.2 bilioni (CARES Act) che includeva sussidi diretti ai cittadini, e in Europa varie iniziative poi culminate nel Recovery Fund. Questa risposta rapida e coordinata, imparando la lezione del 2008, ristabilì la fiducia degli investitori che “il peggio sarebbe stato arginato”. Così, incredibilmente, entro l’estate 2020 i principali indici avevano recuperato la maggior parte delle perdite, nonostante l’economia reale stentasse ancora. Il mercato azionario, anticipando una ripresa post-vaccini, entrò in un nuovo bull market già durante la pandemia.
La crisi pandemica ha accelerato alcuni trend di lungo corso. Sul fronte economico, ha consolidato un ruolo più interventista dello Stato nell’economia (attraverso spesa pubblica e banche centrali molto attive). I tassi di interesse sono rimasti bassissimi fino al 2022, e la massa monetaria è aumentata fortemente, ponendo le basi poi per pressioni inflazionistiche emerse nel 2021-2022. Sul fronte dei mercati, il crollo e recupero del 2020 ha dimostrato l’efficacia (ma anche i rischi) di politiche monetarie ultra-espansive: da un lato hanno prevenuto una depressione, dall’altro hanno forse alimentato nuove bolle in alcuni asset (es. boom dei titoli tech, criptovalute e meme stocks nel 2020-21). Le aziende hanno imparato l’importanza di modelli di business resilienti: quelle tecnologiche e con presenza online hanno prosperato, mentre settori tradizionali hanno dovuto reinventarsi. Socialmente, la pandemia ha cambiato abitudini (esplosione del lavoro da remoto, e-commerce) che hanno riflessi anche sulle valutazioni di borsa (big tech come Amazon, Zoom, Microsoft ne hanno beneficiato). In definitiva, la crisi da Covid ha sottolineato l’interdipendenza tra salute pubblica ed economia: un nuovo tipo di rischio sistemico (pandemico) è entrato nei modelli di rischio degli investitori.
Il Covid-19 ha colpito tutto il mondo simultaneamente, qualcosa mai accaduto in tale misura. Ciò ha comportato una risposta globale coordinata: per la prima volta tutte le maggiori banche centrali e governi hanno allentato le politiche in sincronia. L’impatto sull’economia globale è stato negativo nel breve termine (il 2020 ha visto la peggior recessione globale dal dopoguerra, con PIL mondiale a -3,3%), ma grazie alle risposte politiche, la ripresa nel 2021 è stata vigorosa. Dal punto di vista dei mercati finanziari, resta emblematico come nel 2020 si sia materializzato in poche settimane uno scenario da “crollo epocale” e immediatamente dopo una ripartenza altrettanto eccezionale: ciò evidenzia l’importanza cruciale della fiducia e dell’azione tempestiva delle autorità. In retrospettiva, il crollo del 2020 sarà ricordato come un case study di shock esogeno estremo e di come i mercati possano reagire velocemente sia in negativo che in positivo di fronte a eventi senza precedenti.
Lezioni apprese e resilienza dei mercati
Ripercorrere i dieci più grandi crolli della storia ci mostra che, nonostante le epoche diverse e le cause specifiche, ci sono elementi ricorrenti. La speculazione eccessiva e la formazione di bolle, l’euforia seguita dal panico, l’assenza (o inefficacia) di regolamentazione, fattori esogeni inattesi (guerre, pandemie) – sono tutti elementi che ritornano in questi eventi. Ogni crollo ha portato dolore finanziario a chi l’ha vissuto, ma anche insegnamenti preziosi che hanno plasmato l’evoluzione dei mercati e delle politiche economiche:
- Dopo ogni grande crisi, i mercati hanno introdotto miglioramenti strutturali: ad esempio, il 1929 portò alla regolamentazione dei mercati e alla nascita della SEC; il 1987 portò ai circuit breakers; il 2008 rafforzò i requisiti di capitale delle banche; il 2020 ha accelerato la cooperazione globale di policy.
- Si è compreso il ruolo cruciale della fiducia: le crisi dimostrano che la fiducia impiega anni a costruirsi ma può crollare in giorni, e senza di essa il sistema economico si blocca. Le banche centrali e i governi sono diventati sempre più consapevoli della necessità di agire rapidamente per sostenere la fiducia (fornendo liquidità, garantendo depositi, ecc.).
- I mercati, nonostante tutto, mostrano una notevole resilienza nel lungo periodo. Come evidenziato dal fatto che, storicamente, gli indici azionari hanno poi recuperato (a volte in tempi brevi, come dopo il 2020, altre volte impiegando anni o decenni, come dopo il 1929 o il 2000). Chi investe con orizzonte di lungo termine ha visto che, pur attraversando tempeste violente, un portafoglio diversificato tende a risalire grazie alla crescita economica di fondo e all’innovazione.
- Ogni crisi ha spinto a migliorare la gestione del rischio e la preparazione. Ad esempio, la cooperazione internazionale in ambito finanziario è aumentata: oggi esistono tavoli di lavoro globali per prevenire crisi sistemiche (Financial Stability Board, G20 finanziario). Inoltre, gli investitori stessi sono più consapevoli dei rischi: concetti come stop-loss, asset allocation prudente e controllo dell’emotività durante le fasi di panico sono diventati parte integrante dell’educazione finanziaria.

In ultima analisi, l’evoluzione dei mercati finanziari può essere vista come un processo di apprendimento collettivo. Ogni grande crollo ha rappresentato un momento di rottura, seguito da un adattamento. Il sistema finanziario odierno, con tutte le sue regole e istituzioni, è figlio di queste esperienze storiche. Certo, la memoria tende ad affievolirsi e periodicamente si formano nuove bolle – spesso si dice che “l’unica cosa che impariamo dalla storia è che nessuno impara dalla storia”. Eppure, ad ogni ciclo, gli strumenti per affrontare le crisi si fanno più sofisticati.
Oggi, sapendo ciò che è avvenuto nel 1637, nel 1720, nel 1929, nel 1987, nel 2008 e così via, investitori e policy maker possono affrontare il futuro con un bagaglio di conoscenze più ricco. I crolli di borsa, per quanto devastanti, fanno parte del ciclo economico e probabilmente ve ne saranno altri in futuro. Ma l’importante è che, come sistema, continuiamo a imparare da essi, costruendo mercati più trasparenti, regole più solide e una maggiore resilienza psicologica. In questo modo, pur senza eliminare i rischi, saremo meglio equipaggiati per affrontarli, mantenendo la rotta anche nelle tempeste finanziarie che inevitabilmente si ripresenteranno negli anni a venire.
Fonti:
Le informazioni riportate in questo articolo provengono da fonti affidabili e autorevoli nel campo della finanza, dell’economia e della storia dei mercati, tra cui: